Officina riparazioni umane.

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Le cose accadono improvvise, che quando meno te lo aspetti, ti può succedere che stai male, o qualcuno affettivamente vicino a te ha un malaugurato malore, che e’ ancora peggio. Io so come reagire al dolore, io so cosa significa star male, io so che prima penso che mi passa, e ancor  prima il malessere se ne va.

Come le cose brutte della vita, più son brutte e prima vanno affrontate, che così passa tutto, che tanto il pessimismo non aiuta, ne a guarire tantomeno sistemare le “cose” che lo stesso son tutte “cose” che appartengono a questo mondo, e alla fine sono inutili come il viverle.

Così che a star male oggi non sono io, ma è la donna della vita mia, il che complica tutto perché fa star male anche me, che doppiamente assisto impotente, e tanto vorrei fosse mio il disagio, che non posso affrontare ne allontanare perché di carne si tratta, del corpo e della mente di un’altra persona. Non posso proprio veder soffrire chiunque, nemmeno il mio cane, figuriamoci la persona che amo. Niente panico, nemmeno quando mi dice di chiamare l’auto ambulanza, che arriva con una certa celerità, senza ironia aggiungo che forse sarà che abito a trecento metri dall'”officina del corpo”.

E mi ritrovo nell’ennesimo ospedale, al pronto soccorso, con gli occhi attenti alla guardiola di quella persona addetta a venirti prima o poi ad avvertire che puoi raggiungere il tuo caro, quando ovviamente la situazione non è drammaticamente grave. Stesse scene, quasi fossero sempre le stesse facce, perché la tristezza di chi e’ sconsolato e smarrito, è sempre la stessa.

Tra le corsie una mamma che abbraccia seduta il suo bimbo che accusa dolori al pancino e lo consola con languide carezze, un ragazzo seduto che per orgoglio trattiene le lacrime per il dolore di un incidente su due ruote, una donna di colore sembra smarrita nel nulla del chissà cosa succede qua, e parenti che annoiati si accasciano sulle sedie guardando stancamente la tv nella sala d’attesa.

Di tanto in tanto ci si incontra con lo sguardo come a consolarci vicendevolmente, o per i più fortunati a dirsi povero te ai meno contenti in viso.

Quante volte ho visto un ospedale, talmente tante che per ognuna delle situazioni, da subito le ho associate per assurdo a bei ricordi, come quando da ragazzo, mi sentii poco bene in quel posto in riva al mare, Pietra Ligure, che all’ingresso sembrava di essere in un posto esotico, tanto le palme la facevano da padrone nel contorno del suo giardino, e subito mi guarirono dall’effetto del mio primo stupido spinello consumato in quella comune di hippyes alla sessantottina, che non si era tanto distante essendo il 72 o73, che poi il disagio maggiore mi era venuto non tanto per l’effetto dei due tiri di cannabis, ma da un ambiente che mi disgustava, infatti mi ci trascino’ quasi a forza Imre, un amico ungherese che per non contraddirlo lo assecondai, e il sentirmi poco bene, fu più una scusa che altro.

Ma poi quando dovetti operarmi alle  tonsille nella bella clinica bergamasca San Francesco che porta il nome del Santo che prediligo. Belle stanzette comode com mamma sempre accanto a farmi ingurgitare gelato in quantità industriale, quindi da necessità virtù, e ne trassi beneficio.

O in quell’altra con cognome di un noto personaggio bergamasco, Castelli, anche la con un ventennio in più sulle spalle vezzeggiato in una bella stanzetta non più dalla mamma ma da gentilì infermiere.

Che ancora non me lo spiego come mi crebbe un testicolo in più, che mi piaceva pure essere diventato un discendente del Colleoni, ma tre palle le aveva solo lui, a me era venuta poi, molto poi, ergo non saveva d’avere perché non era un coglione. Così che riandai nella clinica di  S. Francesco… una parte tanto delicata da ‘riparare’ aveva bisogno di un Santo molto “Delicato”

Sempre dalla clinica del “Santo” ci riandai, curioso il fatto che mi presentai da uno specialista per un ernia inguinale, d’apprima venni accolto con la sufficienza di un ricovero a medio lunga distanza, ma quando il dottore scopri’ che ero coperto da una assicurazione personale, improvvisamente il ricovero era di li a pochi giorni in camera privata, con l’aggiunta di un sorriso smagliante da parte della infermiera, che non capisco prima dove lo avesse nascosto. Ed anche allora un bel ricovero, un abbraccio tenero e sicuro in “officina” per eseguire una perfetta riparazione, tanto accurata che una settimana dopo ero di nuovo in palestra anche se con sforzi ridotti.

Ma il mio ospedale preferito nel tempo era in quel grazioso paese di montagna, Groppino in alta valle Seriana, che a metà valle vado periodicamente in un altro ospedale per sapere quanti litri di aria riesco ad espellere dai polmoni in un soffio di fiato sparato a tutta forza, e a quel punto si ripropongono alcol e tabacco e la carta d’identità riduce sistematicamente le quantità di aria che butto fuori nel corso degli anni, e per la inclemente fatidica carta di identità che non smette di sbiadire l’inchiostro delle sue parole.

Ma tornando all’ospedale dei polmoni in quel di Groppino, dicevo che è il mio preferito, ricordo che negli  anni novanta, mi prestai volentieri a sperimentare la cura che mi vedeva tra uno dei primi protagonisti di quelle molteplici protuberanze che sorgevano cutanee sulla pelle delle mie braccia, in pratica le intolleranze ad acari di ogni specie, e pollini vari. Per due anni periodicamente mi presentavo in questo ospedale stile liberty, per farmi bucare sistematicamente la pelle, ma ancora il pensiero più gradito, fu quando venni ricoverato per esami specifici ai polmoni, di cui sono assillato perennemente da una forma allergica asmatica. Era come andassi in vacanza per un po’, e il dottore primario dello stesso ospedale che fumava due pacchetti di sigarette al giorno, mi trattava come fossi un vecchio amico.

Anche lui smise di fumare alla veneranda età del pensionamento, magari perché si dovette impiantare due o più by pass alle coronarie, inutile dire quanto lo presi in giro per questo. Lo stesso ancora oggi lo ringrazio per avermi segnalato mediante una visita di routine, “polipetti” tumorali alle corde vocali, tempestivamente asportate in un ospedale bresciano in quel di Darfo. In quel luogo trovai la consueta “protezione” e rassicurante assistenza, non fosse per l’anestesia, che in quella occasione fu particolarmente drammatica… Su quel trasportino di acciaio ebbi più paura ad addormentarmi sinteticamente, che per tutto il resto dell’intervento stesso.

Anche il vecchio ospedale San Biagio di Clusone mi era noto per le numerose visite che vi feci.  La più “dura” in termini di dolore, fu quando alla seconda di Pasqua subito dopo pranzo decisi di fare seguire dei ragazzi che andavano per sentieri con moto dalle gomme artigliate. Una bella impennata con la mia potente moto bicilindrica, due grappe di troppo appena assunte non mi aiutarono a far bella figura con alcuni spettatori avventizi del momento, caddi rovinosamente a terra con legamenti andati del ginocchio destro.

Invece la volta peggiore in cui vi venni temporaneamente ricoverato d’urgenza, fu sempre per un malaugurato incidente ancora con la moto, un’altra questa volta, da enduro, una botta tremenda presa direttamente dopo aver invaso la corsia di un auto che sopraggiungeva dal lato opposto del mio senso di marcia.

Bacino fracassato, e emorragia interna, da subito si capi’  che non potevano operare in alcun modo, causa gravità dei traumi, e venni trasferito quasi subito al dismesso ospedale Maggiore di Bergamo. Non che mi mancasse, perché ci ero già stato per altri motivi di lieve entità, come un intervento a mente serena, solo intontito da una forte dose di Valium, per l’asportazione vista per schermo televisivo di polipi al retto, e che dire,  per quanto sembri assurdo,  anche in quell’occasione mi sono sentito protetto e al sicuro in quella vecchia stanzetta ora in disuso, e primo la presenza fissa di mia moglie che venne alloggiata nel corridoio in via del tutto eccezionale, amorevoli cure delle infermiere assieme a forti dosi di morfina e undici giorni passarono in fretta, un po’ meno il rientro a casa, tre lunghissimi estenuanti dolorosissimi mesi, dove il mattino agognavo la visita benefica di una signora che mi leniva il dolore con due potentissime iniezioni di anestetico, ma ancor più avrei preferito essere ancora nel caldo accogliente e rassicurante ospedale.Maggiore.

Due volte non volli essere ricoverato in “officina”  la prima era marcata Romania, in Bucarest mi rifiutai di farmi visitare in una struttura ospedaliera dove mi dissero dovevo portare lenzuola pulite di mio, e la sera chiudere a chiave le mie medicine, forse stiamo parlando del 2001 ora probabilmente e’ diverso, fatto sta che mi portai a casa in Italia la mia “bella” infezione intestinale. L’altra volta fu in Egitto a Sharm el-Sheikh, nemmeno mi informai se esistesse una struttura di cura, e ancora mi portai a casa la mia crisi d’asma, che però incoscientemente come di mio uso comune, non mi impedì  di effettuare una immersione nell’acquario di Allah, anche con il fiato corto riuscii ad avere il bene di avere il muso di una murena a pochi centimetri dal mio viso, come di vedere sguazzare allegramente una piccola razza, e centinaia di altre splendide creature nuotanti di Dio, di Allah che sono la stessa meravigliosa simbiosi d’amore sparso anche nel mar Rosso. Sono tutte storie di vita comune, dove ci si rinfranca il corpo, la mente e lo spirito.

Due volte me ne andai dal l’ospedale Fenaroli di Alzano, ancora sanguinante dopo un grave incidente di moto, firmai e me ne andai perché pensai che dopo due, anche tre ore d’attesa, avevo capito da me di non essere fratturato e non avere bisogno di punti sutura. Molte altre volte successe il contrario e fui ben curato da crisi polmonari.

Una capatina nei reparti di oncologia, dove ragazzini sgranano gli occhi guardandoti con un perché, come quando ci lamentiamo di cose assurde e futili, dovremmo visitare qualche reparto terminale, dove la gente ivi ospitata per l’ultimo vano tentativo di salvezza terrena, non alza lo sguardo per vedere chi sei, perché sinceramente non gliene importa più nulla di saperlo, e la lista prosegue ma non cambierebbe in alcun modo il mio modo di pensare che sono fortunato ad aver visitato quelle oasi di speranza ed esserne felicemente uscito senza troppi danni, la, in tutti quegli ospedali.  E ora Mario nemmeno sa ….. qui con altra gente sofferente bisognosa di riparazioni, che scrivo ciò che si legge, ad aspettare paziente che la mia amata si riprenda, e ancora una volta a pregare e ringraziare Dio che mi ha sempre fatto visitare il lato migliore dell’ “officina” delle riparazioni umane.

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