Nell’intermezzo dei miei ricordi, mio malgrado ogni tanto i pensieri mi si interrompono e ricorrente è il ricordo triste del fatto che i miei genitori non m’hanno mai tenuto in braccio per ’consolarmi’ un pò…. sarebbe stato bello se mamma e papà m’avessero detto, ’bravo’… ti facciamo fare una vita di m…a, ma tu sei ’bravo’. Dio. solo sa quanto mi avrebbe fatto star bene sentirmi dire quel ”bravo”, invece mi dovevo consolare da solo tra pianti nascosti in qualche angolo di casa… solo, senza abbracci o baci… solo con le mie lacrime amare nascoste al mondo intero, ma con coraggio ’tiravo avanti’… la stessa cosa che si son detti sulla stessa via nemica un italiano e un austriaco in tempo di guerra ai tempi ’garibaldini’.
Ricordo con gioia che ogni sabato, mastro calzolaio mi saldava i conti del mio lavoro svolto nella sua bottega, e mio fratello Giacomo, puntualmente era fuori ad aspettarmi. Io ricevevo la paga settimanale di ”500”lire d’argento… una moneta grossa nelle mie piccole mani… troppo grande per me! La guardavo, giravo e rigiravo tra le dita nel mentre facevo i pochi passi per arrivare in strada dove dalle mie mani, la grossa moneta d’argento che con mio grande orgoglio passava nelle mani di Giacomo. Contribuivo anch’io alla famiglia, e tanto mi rendeva felice. Del resto anche mio fratello Giacomo consegnava per l’intero la sua paga mensile in famiglia nonostante i suoi ’soli’ ”18”anni, era diventato di fatto il capo della famiglia stessa, ed era perciò che noi avevamo sempre del cibo sopra quei bei piatti colorati con più rosso che altri colori. Giacomo si permetteva il lusso (si fa per dire) di uscire qualche ora di sabato sera e ancor meno la domenica, il resto di tutto il tempo della settimana, era lavoro e fatica… fatica e lavoro. Giacomo, il mio ’fratellone’, l’unico che mi capiva, l’unico che aveva una parola buona per me, la mia figura paterna, il mio protettore.
La notte di carnevale, mia madre mi volle vestire per l’evenienza e mi mise indosso una sottana e un foulard in testa. Di che maschera mi voleva travestire lo sa solo il cielo… vagamente ricordo che uscii dal portone di casa correndo in strada… una motocicletta e il suo conduttore passava in quel fatale momento, mi viene in mente di avere le ruote della moto sopra di me, e sentivo urla disperate di chi subito era accorso al mio incidente. Fortunatamente, non mi feci un gran che male, cosi che dopo alcuni giorni di letto ero più arzillo che mai, di nuovo in campo a giocare una nuova partita con la vita.
La mia vita era ”una cotta” e una ”cruda”E tanto per rimanere in tema di guai che altro non v’era, mi ricordo della prima volta che Santa Lucia mi portò un dono… una pistola argentata… senza fiato la presi per la canna da dove tra stracci era stata riposta ma rimasi a bocca aperta di stupore quando solo la canna della pistola mi rimase in mano… non c’era il manico! Guardai la mamma e lei rispose al mio sguardo sconsolato dicendomi che Santa Lucia era sul carretto con tutti i doni per i bimbi e una buca lo fece sobbalzare e la mia pistola cadde a terra, disdetta volle che Santa Lucia era troppo impegnata a sorreggere i suoi occhi che teneva nel palmo delle mani e non potè fare nulla… la pistola cadde proprio sotto una ruota del carro e si ruppe irrimediabilmente… a me, con tutti i doni che può contenere un carretto, proprio la mia pistola doveva cadere! Tempo dopo seppi che la pistola era di un ragazzino che dopo averla rotta, stanco di giocarci, la regalò a mia madre, di nuovo non so se mio padre fosse presente o meno… io ero il ‘solito’ ragazzino sempre solo, un randagio solitario che altro non pensava che al lavoro per il bene della famiglia.
il comune di Seriate, una estate organizzò una vacanza per le famiglie meno abbienti affinché i loro figli potessero trascorrere tre settimane di vacanza in una colonia montana gestita dalle suore. Mi mandarono a Piazzatorre una località montana bergamasca a una trentina di chilometri da Seriate… passai i giorni più ’brutti’ della mia vita. Non si può incatenare uno spirito libero come era il mio abituato a lavorare e essere un randagio nel tempo libero… mi sentivo dentro come fossi in carcere, rinchiuso tra quattro mura.
Non parliamo del mio problema più grande che avevo da ragazzino, facevo la pipì a letto, mi vergognavo tantissimo, al punto che molti notti non dormii per paura di ”farla dentro” le mutande. Le suore quando vedevano il letto bagnato, mi sgridavano ad alta voce e le loro urla si sentivano in tutta la camerata… e i miei compagni ridevano… ridevano… e io piangevo di nascosto… li avrei fatti soffrire tutti, dal primo all’ultima risata. Uno di quei ”maledetti” giorni in cui soggiornai, si fa per dire, in quella colonia, giocando a palla con i compagni, inciampai maldestramente e caddi rovinosamente a terra con il braccio, le suore mi portarono all’ospedale, la venni ingessato e subito dopo riportato nell’odiata colonia.
Saputo dell’accaduto dove mi ruppi un braccio, mia madre mi venne a trovare trovando un passaggio fortuito da un probabile amico di famiglia che quel giorno, si doveva recare dalle parti di Piazzatorre. Arrivò la mamma che invece che abbracciarmi e chiedermi di come stavo, chiese a una suora di potersi sedere perchè si sentiva male. Gli girava la testa e stava per vomitare… tutte quelle curve fatte in moto nei tornati a salire alla colonia, la fecero stare molto male, e come sempre fui io a consolarla che viceversa. Sarà per tutto quello che ho passato in quelle settimane d’inferno che ora non posso che odiare la montagna… ma più che la montagna, la ”colonia di montagna”.
Finita l’agonia di quella bella vacanza a coronare ogni altro mese dell’anno non meno sfortunato, tornai a casa, a Seriate e li non poteva mancare la sorpresa di benvenuto dopo che mi ero fatto vacanze amare… ci avevano sfrattato di nuovo e di nuovo era colpa del solito padre ’ubriacone’ che annegava i suo stato d’animo nell’alcool.
Tutto da rifare un altra volta, io ero più ‘grandicello’ dovevo ripartire da zero. Altri amici, altra scuola scuola in cui frequentai la quarta elementare, altre storie di vita da ricostruire senza un passato che mi potesse aiutare. La prima cosa che feci fu di andare dal mio datore di lavoro, (oggi si dice) Palmiro mi guardò incredulo, senza parole mi abbracciò e pianse. per Lui era come avesse perso il figlio che non aveva mai avuto e il suo dispiacere fu grande più del mio. Mi augurò ’buona fortuna’ e risposi che non avrei mai dimenticato ciò che Lui e la moglie fecero per me.
E così, altro trasloco con mio padre che camminandogli davanti teneva le briglie del cavallo che a sua volta trainava sulle spalle le due staffe di legno del carro che raccoglieva povere masserizie e qualche mobile che definirli tali era un eufemismo… mia madre e noi ragazzi si stava dietro il carro per spingerlo aiutando il povero cavallo sobbarcato dal peso di tutto ciò che possedevamo… così alla ’buona’… dimessi al nostro sempre difficile vivere. Strada facendo mentre spingevo anch’io per quel che potevo, sognavo ad occhi aperti che la “nuova” abitazione fosse circondata da alberi da frutto, come fu la nostra prima casa di Brusaporto dove sono nato. Dopo ore di viaggio a piedi che servirono per percorrere i 7/8 chilometri che da Seriate ci portarono a Scanzorosciate arrivammo nella cascina ”öl casinet” omonimo dialettale di piccola cascina. Ad aspettarci c’era il ”padrone di turno”, il proprietario del cascinale. Ricordo che mentre questi parlava con mio padre, io rimasi a bocca aperta ad ammirare quella fiammante Fiat Topolino parcheggiata in mezzo al cortile… non gli tolsi gli occhi di dosso, non avevo mai visto da vicino un automobile e il proprietario che era poi il “padrone”, vedendomi così stupito mi chiese se volessi fare un giro e prima ancora di avergli risposto di si ero già con un mano sulla maniglia cromata di quella magnifica ”Topolino”. Mi fece fare un bellissimo giro, ringraziai e fui felice di quell’accoglienza preludio (speravo) di buona convivenza reciproca tra noi famiglia e il proprietario stesso.
Vicino alla nostra nuova collocazione cerano altre casine, vedevo dei ragazzi su per giù della mia età che vi scorrazzavano contenti, vennero a salutarmi nei giorni successivi al nostro arrivo, erano curiosi di capire chi fossimo e da dove venissimo così che con il tempo diventammo amici.
La scuola non mi interessava proprio, mi piaceva di più pensare al lavoro che ancora oggi ritengo che una non si può esimere dall’altra e fu per questo che da subito cominciai a pensare a quello… il lavoro che peraltro mi permetteva di aiutare la famiglia, così mi diedi subito da fare per cercarne uno. Un giono mi recai in una cascina vicino alla mia e entrato nel suo cortile tra l’ilarità scatenata dalla mia presenza di alcune donne che parlottavano sotto una pianta, chiesi all’uomo di casa se potesse darmi un lavoro da svolgere dopo la scuola. Quell’uomo era un falegname e subito mosso forse da compassione mi disse che avrebbe gradito il mio aiuto il pomeriggio, avrei dovuto rassettare e pulire il magazzino laboratorio che egli gestiva, iniziai il giorno dopo, alle ”13” immediatamente dopo la scuola dopo che le lezioni finivano giusto giusto un quarto d’ora prima, per questo motivo non avevo il tempo materiale di mangiare e mi recavo al lavoro diligente come sempre. Le donne di quella casa di falegnami, spesso mi offrivano del cibo, ben sapendo che non avevo mangiato e io mentendo per orgoglio e educazione rispondevo loro che avevo già mangiato, ma non credendomi addentavo un panino con un ”qualcosa” che mi davano per mangiare.
Ero felice, avevo il mio lavoro e la scuola era un optional a cui non tenevo un gran che. Tutto bene in quel ennesimo trasferimento forzato, ma la ”cosa” che mi rodeva di più in petto, era sentire sempre e comunque il ritorno la sera a casa, gli stessi problemi, mio padre che con la scusante di conoscere il nuovo vicinato, passava di cascina in cascina a portare un saluto, ma non era che il pretesto per poter bere un bicchiere di vino…. anche due che gli veniva offerto dai nuovi vicini, ergo, mia madre piangeva e noi figli si era tutti costantemente preoccupati. Era inutile passassi personalmente dai vicini di casa per dir loro di non dare da bere a mio padre, questi non avevano il coraggio di rifiutare un bicchiere di vino ad un vicino, e mio padre continuava a bere e sbraitare la sera rincasando ubriaco. Un giorno presi coraggio e mi rivolsi a mio papà dicendogli… perché fai così?… si, dai, ho capito! diceva… ma nulla cambiava in positivo, devo almeno ammettere che mio padre nonostante tutto almeno non era violento e non ha mai picchiato mamma e figli. Era alcoolizzato, aveva bisogno di bere per scacciare i suoi demoni molto ricorrenti, quando non beveva era la più brava persona al mondo, grande lavoratore che non conosceva fatica… quando non beveva… per questo non prendeva il salario come tutti, il “padrone” per quel poco che faceva gli condonava l’affitto… era almeno un qualcosa di importante per la nostra famiglia.
Mio padre era una persona intelligente e fondamentalmente buona e nonostante tutto, non so perché ma gli ho sempre voluto bene… più che a mia madre… l’ho sempre rispettavo anche molte volte non lo meritasse.
Altro pensiero ricorre a mio fratello minore Mauro, un bravo fratellino che a Scanzorosciate cominciò ad andare all’asilo ma ahimè senza il grembiule con il fiocco azzurro, non ricordo il frangente di qualcuno che mi disse che a Ranica, un paese distante pochi chilometri dal mio esisteva un capannone dove molte persone vi portavano degli stracci e indumenti lisi che buttavano via. Un sabato pomeriggio che non lavorai, mi lavai muso e ascelle e andai a piedi, ovviamente, in quel di Ranica, cercai quel capannone tanto chiacchierato e per fortuna lo trovai, con il permesso del portinaio, subito mi buttai a capofitto su un mucchio di vestiti dismessi, rovistando freneticamente tra loro, trovai un grembiulino che non sembrava nemmeno fosse usato… solo stropicciato. Con qualche soldo della mia paghetta settimanale pagai l’agognato grembiule per il mio adorato fratellino e orgogliosamente glielo diedi una volta rincasato la sera, ricordo di avergli detto che anche Lui ora aveva di che essere orgoglioso di andare all’asilo vestito come tutti gli altri bambini… lo meritava, Mauro come me e Giacomo era un bravissimo bambino.
Non pago di andare a scuola e di pomeriggio lavorare in falegnameria, nelle lunghe sere d’estate quando le giornate se ne vanno a dormire molto tardi, io dopo cena andavo nei campi, cercavo scatolette di latta o tubetti in alluminio… facevo una raccolta settimanale e di fine settimana li vendevo per guadagnare ancora qualche spicciolo così che quell’anno non solo mi feci la mia prima vera Santa Lucia, ma la feci anche per Mauro, comprai dei giocattoli di cui nemmeno ricordo cosa fossero, ma ben ricordo che fecero felici tutti e due.
Ero bravo nel cercarmi lavori e lavoretti, mi davo molto da fare, ma non ero altrettanto bravo nello studio… i compiti non li facevo quasi mai, non ne avevo ne la voglia ne il tempo per poterli fare, del resto la maestra che ben conosceva la mia situazione era più che indulgente e sopprassedeva spesso alle mie mancanze, almeno ero piuttosto ’sveglio’ e quel poco studio che facevo mi veniva bene. Brava la maestra con me, anche se inconsapevolmente mi faceva un gran male quando in classe parlava di me ai compagni dicendo loro che andavo compreso perché venivo da una famiglia bisognosa… povera, e puntualmente mi vergognavo come chi avesse rubato delle mele al mercato che a quei tempi era cosa gravissima. Risultato era che i giorni seguenti qualcuno dei miei compagni mi portava da mangiare delle merendine, ma io che non sono stupido le rifiutavo con la solita scusa che a casa ne avevo già mangiato avendo capito che non era altruismo gratuito ma bensì mi offrivano cibo per farsi belli agli occhi delle ragazzine della scuola, perciò era umiliante, e orgoglioso com’ero, e come penso di esserlo tuttora, dimostravo di non aver bisogno dei loro ’caritatevoli gesti cavandomela da solo…
Non mi faceva stare bene essere considerato il ’povero’ della classe e ci stavo male, ancor più perchè nella mia classe c’era una ragazzina che mi piaceva un sacco, ma questa per accentuare di più il mio malessere, prediligeva i sorrisi di altri ragazzini ’benestanti’. Mi arrabbiavo spesso per queste cose, in particolar modo un giorno, così che il mattino seguente che la notte piovve a dirotto, invece che andare a scuola ed esserci per le ”8.30”, andai di buon ora a lumache e lucertole giallastre che sembravano ramarri. Avevo tutto nelle tasche, lumache e ’lucertoloni’ vivi compresi, arrivai a scuola alle ”10” del mattino, a quell’ora le maestre si riunivano in un altra sala della scuola per fare la loro ricreazione e parlottare fra loro mangiando una pasta per colazione, lasciando ognuna al proprio ”capoclasse” ( che era il solito ”secchione lecchino”) il compito di sorvegliare che tutto fosse tranquillo e non si facesse molto baccano.
Ed erano le ”10”, la maestra non c’era e arriva ’lui’, il capoclasse che io se potevo ogni giorno l’avrei fatto salire su il più alto degli olmi e l’avrei gettato di sotto tanto mi stava sulle ”scatole”… non lo potevo vedere proprio, e lui, proprio l’odiato compagno mi chiese il perché del mio ritardo, senza risposta lo presi per le spalle e lo girai di colpo e gli diedi un ‘calcione’ in culo tanto forte che penso lo ricordi ancora adesso, poi mi sedetti sulla scrivania della maestra e ammonivo tutti di stare zitti, ero io in quel momento per rabbia e per dispetto, l’autoproclamato ’capoclasse’. Qualcuno parlava comunque, sopratutto le ragazze così toglievo di tasca lumache e lucertole tirandogliele addosso, le ragazzine gridavano per la paura e i maschi erano visibilmente intimoriti, non avrei di certo guadagnato la loro stima ma a me non importava perché sapevo che comunque sarei rimasto l’emarginato povero della classe, almeno nutrivano un sentimento vero nei miei confronti… avevano paura.
Ma un quarto d’ora dopo, puntuale, la maestra rientrò in classe e mi colse in flagrante seduto alla sua scrivania, guardò storto me e rivolse subito lo sguardo al ”lecchino secchione” per cercare una risposta al ”lecchino secchione” che ben felice fu di spiattellare spesso esagerando come andarono i fatti in quel tempo di pausa ricreativa. La maestra infuriata mi mandò via immediatamente, e io fui ben felice di andare subito al lavoro nella falegnameria invece che a casa.
Dopo l’accaduto alcuni giorni dopo la maestra fece recapitare a casa dai miei una lettera in cui v’era scritto del mio comportamento violento e diceva inoltre che per questo tutti i ragazzini e ragazzine avevano paura di me, io non ero affatto cattivo, era il loro sguardo di commiserazione che mi faceva male di più che il calcio in culo che diedi al ’capoclasse’. Forse quella volta esagerai, ma ancora oggi non mi sono pentito di aver fatto ciò che feci. Mia madre fu convocata alla scuola dalla maestra per parlare un po del mio comportamento e chiedergli di punirmi e invitarmi ad essere più bravo e buono… e tutto sembrò tornare come prima… in apparenza perché tutti da allora mi stettero alla larga isolandomi se possibile ancor più di prima.
Per mia fortuna la sera venivano a trovarmi i miei nuovi amici del vicinato, giocavo con loro ed ero contento come una “pasqua”, poi tutti nella stalla a mangiare il ‘farinaccio’ nei sacchi destinato come foraggio per i vitelli… era buono e dolciastro e spesso la mia cena era quella così che in casa ci rimanessi il meno possibile lasciandomi alle spalle per qualche ora i soliti, non ignoti, problemi della famiglia.
Laciavo alle spalle per qualche ora i problemi di famiglia, ma ’quelli’ mi attanagliavano alla gola e non mi volevano mollare, infatti un altro sfratto era dietro la porta… ci mandarono via di nuovo, fummo trasferiti in una frazione di scanzorosciate, Tribulina, alla cascina ”mafioil”così denominata dal abbreviativo in dialetto bergamasco del cognome dei propietari…vicina ma sempre troppo lontana dai miei affetti. Altri pianti per giorni e giorni e poi tutto da ricostruire un altra volta, stessi problemi e vita forzata nuova, intanto il tempo passava e con lui aumentava il mio vergognarsi per la nostra situazione.
Logicamente fui accompagnato da altre disgrazie, mia mamma esasperata dal comportamento di mio padre, decise di farlo ricoverare in ospedale per disintossicarsi, e fin lì niente di male se non si pensasse al fatto che l’’ospedale altri non era che il manicomio di Seriate che confinava di pochi metri da Bergamo città. Ovviamente altro motivo di grande vergogna per me che da quando fu ricoverato papà, i ragazzi del posto e vicinato compreso, presero a chiamarmi ”ôl matì”, il piccolo matto… perché quello grande di matto era di conseguenza papà.
Io, sempre inquieto e ’nervoso’ come pochi… non sapevo dove sbattere la testa e il mio stato d’animo aveva rasentato la terra.
‘Marchiato ôl matì’, che lo stesso la buona e brava gente ignorante non aveva altro di che parlare, avessero quei genitori pensato di più all’educazione dei loro figli, non mi avrebbero etichettato ôl matì, il matto piccolo, forse quella gente era troppo impegnata a lavorare e non ne rimaneva per educare i figli, e forse ancora loro stessi non avevano ricevuto alcuna educazioni da genitori nati nella metà degli”800”.
Ci soffrivo comunque e lo stesso volevo e pretendevo rispetto… era il mio unico modo per dire loro che non ero matto ma spesso se non sempre, migliore di loro, in fondo non desideravo che essere spensierato e felice come tutti i miei amici… sereni.
Mio padre in ospedale, o manicomio, dove si mischiavano i pazienti alcolizzati con persone mentalmente squilibrate, e io piccolo testardo, per fortuna incallito ottimista, piangevo ma andavo avanti per la mia strada e la domenica era andare a trovare il papà in ospedale.
Percorrevo ”10” chilometri di cammino per raggiungere Seriate, ma era bello vedere l’entusiasmo di mio padre che da sobrio vedendomi arrivare mi correva incontro, mi abbracciava e mi baciava… uno dei ricordi più belli della mia vita, ricordo che porterò con me quanto mi rimanga per grazia da vivere… era tutto ciò che avessi sempre voluto, baci e abbracci dai miei genitori.
Papà mi venne incontro e mi abbracciò, ce ne fu d’avanzo per scatenare il mio buon cuore, e gli dissi, ti porto via da qua, ti porto via papà, parlerò con i dottori e ti farò uscire. Andai dai dottori, parlai con loro della volontà di portare a casa il genitore, mi gurdarono da capo a piedi come fossi un loro paziente matto… voglio portare a casa mio padre! Questi impietositi e comunque sbigottiti dalla richiesta fatta da un ragazzino di ”10”anni, mi dissero che data la mia tenera età non avrei potuto firmare alcun che documento di congedo ospedaliero, e repentino risposi loro… porterò mio fratello Giacomo a firmare per il papà… la meraviglia trasparve dai volti dei dottori, la mia determinazione li aveva stupiti.
Tornai a casa, subito chiesi di Giacomo che di anni ne aveva ”21” e lacrime agli occhi che mi scendevano a rivoli dalle guance raccontai come andò all’ospedale qualche ora prima. Anche mio fratello voleva che papà tornasse… Giacomo portiamo a casa nostro padre! Mi ascoltò e andò a firmare e papà tornò a casa. Ho voluto tanto bene a Giacomo, senza di lui la famiglia non avrebbe mangiato tutti i giorni e son ’cose’ che non si dimenticano.
Mio padre tornò e con lui tutti i suoi stati d’animo che ingannevole aveva sopito nell’ospedale-manicomio, quindi, tutto tornò come prima in un battibaleno. Mio fratello Giacomo non era più il pilastro della mia rettitudine, non ne aveva più il tempo, quel poco che aveva da dedicarmi adesso era a giusta ragione speso per la fidanzata che andava a trovare con la sua luccicante ”90” Mundial, una motocicletta tutta grinta… bellissima. Andava a prendere la sua Anna a Seriate dove due sfratti prima l’aveva conosciuta… questo tutte le sere… tempo per me non de n’era più… io a casa a sopportare la solita litania di accadimenti che sempre erano tristemente legati alla figura di un padre che beveva molto… troppo, respiravo attraverso le mura la tristezza di quei momenti.
Con il tempo mio padre tornò in ospedale anche per altre ragioni, per ben tre volte si trattò di meningite e grazie al suo fisico robusto se la cavò ogni volta brillantemente. I dottori si meravigliavano che un uomo potesse sopportare tanto, era normale che a ogni ricovero, mio padre veniva privato dell’alcool e per un alcolizzato e lo stesso che togliere dun botto la droga a un tossico dipendente… e un dolore non dolore più forte di qualunque dolore…
La vita a casa per altre faccende era sempre la stessa, compreso il fatto che io tutte le mattine mi dovessi alzare alle ”5”, andare a piedi dal fornaio che distava ”3” chilometri, prendere il pane per la famiglia che di li a poco Giacomo si sarebbe alzato per andare al lavoro che iniziava alle ”6”. Perché poi mandassero solo me dal fornaio e non la mamma o altri fratelli… non l’ho mai capita! La strada era buia a quell’ora, faceva molto freddo… avevo paura ma ci andavo tutti i giorni. Ricordo che il fornaio a volte si rifiutava di darmi il pane dicendomi che eravamo in arretrato nel pagarlo da ”2”… a volte ”3” mesi, forse per questo i ’grandi di casa’ non andavano dal fornaio al posto mio! Io rispondevo al fornaio che di li a pochi mesi avrei trovato un lavoro, gli dissi di non preoccuparsi che il pane glielo avrei pagato… e così feci, dopo pochi mesi iniziai a lavorare, avevo finito la quarta elementare a scuola, mi rimandarono, ma non mi importava della ’scuola’ iniziai a lavorare.
E tutte le mattine di buonora che era sempre buio d’estate che d’inverno, in sella alla moto abbracciato a mio fratello che la guidava si andava al cantiere… mi sentivo un ‘ometto’ di tutto rispetto. Ricordo la squadra composta da muratori che per insegnarmi il mestiere picchiavano duro… e gridavano e letteralmente erano calci in culo per ogni sciocchezza o disattenzione. Solita storia, ”60” anni fa nessuno era veramente cattivo… solo molto ignorante e da questa ignoranza nasceva il pensare di fare bene ad educare al lavoro un ragazzo con calci in culo e scappellotti che ti facevano rosse le orecchie per ore. Persino mio fratello Giacomo mi rimproverava brutalmente per ogni minima mancanza, quando addirittura non mi rifilava un ceffone o calcio in culo. A star con lo zoppo si impara a zoppicare e a star con gli ignoranti non si impara nulla… ma anche Lui, mio fratello, per ignoranza si adattava all’ignoranza… e io sopportavo… come sempre e andavo avanti, dritto per ciò che il pensiero mi diceva, che mi ispirava… forse un pò più avanti dell’ignoranza che trovavo sulla mia strada.
Portavo secchi di ferro che pesavano quanto la calce e cemento, che cera dentro, “stabilitura” a spalla e in poco tempo avevo a destra e sinistra, due bei bolli di pelle scorticata dalla calce… spalle ’bruciate’, mia madre la sera di tutti i giorni, mi ungeva un unguento per medicarmi… a volte piangeva mentre lo faceva. Ripensandoci era la sua più grande manifestazione d’amore nei miei confronti, abbracci e coccole Lei non le sapeva fare, mi regalava un dono più grande… piangeva di tenerezza per me, ma non lo sapevo, ora lo so.
Le piaghe sulle spalle erano grandi, ma più grande era la mia determinazione… l’imperativo era lavorare e guadagnare per la famiglia, lo stipendio a fine mese.
Con il passare del tempo capii il perché venivo picchiato dai muratori compreso mio fratello! per esempio per farmi notare dagli altri che ero ‘veloce’ nel lavoro, facevo le scale per consegnare la ”stabilitura”, ma per scendere usavo il ponteggio che abbarbica il fabbricato, come fossi una scimmia scendevo a capocollo. I muratori, aspettavano l’ora di pranzo e tutti riuniti nella ’baracca’ per un frugale pasto, era il momento dei calci in culo e… botte per la mia indisciplinatezza… così che non mangiavo e andavo a fare il mio pianto in solitaria nel cortile del cantiere accanto alla betoniera.
Altre volte quando non le ’prendevo’, mangiavo in ”5” minuti per poi correre sul posto di lavoro degli operai che servivo da manovale, e ”fratazza” alla mano sinistra con la destra ci spalmavo una abbondante “cazzuolata di stabilitura” e via, che provavo a buttare calce e cemento come finitura sulle pareti di mattoni. Intonacavo da me per imparare il mestiere… o meglio, per ’rubarlo’, all’epoca il mestiere non te lo imparavi perché ogni maestro era geloso della sua professione. Gelosia e ignoranza, gli imperativi che vigevano all’ora negli animi degli uomini… e io non capivo… mi stupivo e non capivo… volevo imparare in fretta, bolle sulle spalle di pelle scorticata dalla calce e pedate nel sedere a tutto spiano non hanno mai fermato l’impeto di lavorare… meglio degli altri, più delle altri muratori.
Ricordo di un episodio ’curioso’ e bello nel contempo, ero in un cantiere di Bergamo, proprio al centro della città, poco prima dell’ora di pranzo, i miei ’capi’ mi ordinarono di andare a comperare cibo e bevande, nel mentre che camminavo per strada, una signora affacciata al suo terrazzo, mi chiamò con un fischio e un cenno di mano, guardai verso Lei che mi disse di salire un attimo in casa che aveva qualcosa per me. Io mi vergognai, ero, sporco e lercio come pochi, ma come mio solito non ci pensai due volte e salii le scale che mi portarono al cospetto della ’signora’ gentile… subito mi fece accomodare e mi disse io ho un sacco di magie e pantaloni che ti potrebbero andar bene se li vuoi… come risposta non aprii bocca, mi tolsi tutti i panni stracciati che indossavo e mi vestii con pantaloni e maglia nuova. Quella signora buttò nella spazzatura i miei vestiti e mi vestì ”della festa” che cosi s’usava dire quando si era agghindati di tutto punto per una ricorrenza come la Domenica, il giorno di riposo anche degli animali. Tornai sul posto di lavoro con le cibarie vestito di tutto punto, mi guardarono tutti meravigliati e increduli, spiegai loro come andò la vicenda e questi scoppiarono tutti in fragorose risate… anche Giacomo rise molto.